Chi è stato a Porto Levante sa che è un piccolo villaggio di pescatori, sospeso fra laguna, mare e fiume, nel bel mezzo del Parco Naturale del Delta del Po. Sa anche che non è un luogo immediatamente raggiungibile, trovandosi lontano una decina di chilometri dalla Statale Romea, quindi fuori da tutte le grandi rotte commerciali e turistiche di massa.
Per raggiungerlo bisogna  passare attraverso una vastità di campi e risaie che si estende a perdita d’occhio: soltanto la lontana ciminiera della vecchia centrale elettrica di Porto Tolle rompe il piatto orizzonte del Polesine.
Chi è diretto per la prima volta a Porto Levante si trova ad essere un po’ disorientato nel cercare dal finestrino qualche indizio che lo riconduca ad un mare, o una laguna, ma non troverà nulla se non scorgendo la testa di qualche airone che sbuca dai campi di frumento, o di gruppi di cormorani pigramente appollaiati sui fili della luce. La comparsa di un ramo del Grande fiume, però, lo conforterà dicendogli che la direzione intrapresa è quella giusta.
È questa la caratteristica che più contraddistingue questo luogo: è lontano da tutto e da tutti, e campi e risaie diventano una sorta di zona cuscinetto, che separa la civiltà frenetica e ansiogena, dal silenzio e dalla tranquillità della natura. Comunque sia, per i disorientati ospiti arrivati a destinazione, basta il tempo di farsi una doccia, una passeggiata lungo il fiume per sgranchirsi le gambe, una bella boccata di ossigeno, e sentono presto che il veleno della città inizia a defluire per fare posto alla serenità.
Poi il silenzio e l’odore delle griglie del ristorante a fianco fanno tutto il resto!
Ma c’è chi salta a piè pari questa impasse.
Una mattina di metà Giugno mi trovavo sul molo di fronte alla locanda a chiacchierare con dei pescatori del posto. Loro mi mostravano orgogliosamente una cesta piena di pesci , e, con il loro dialetto, mi erudivano sui segreti del Grande fiume. “Co la corente  vien dentro al fiume se pesca orate, e co la va fora vien su bòseghe, co la marea ze bassa se va a peoci, co la ze alta se va in mar”  Stare con loro è proprio uno spasso, il tempo passa senza che te ne accorgi.
Lontano, all’orizzonte, vidi avvicinarsi due macchiette colorate di rosso e di giallo, muovendosi lentamente  lungo il fiume.
“Hei del Nibbio, avete una camera libera?”
Erano due amici partiti da Cremona con la loro canoa, decisi a navigare lungo il Po fino alle sue foci per poi raggiungere il mare.
IL GRANDE FIUME
Ovviamente volevo scoprire cosa aveva spinto questi due personaggi a montare su una canoa e pagaiare per tanti chilometri dalla Lombardia fino all’Adriatico e, ovviamente, si finì a cena!
Tra spaghetti allo scoglio, bisatti e branzini alla griglia e, naturalmente fiumi di Prosecco, potete ben immaginare quali storie e quanti aneddoti vennero fuori dai loro racconti.
La cosa che più mi fece riflettere, però, fu che, dalle loro facce e dai loro sguardi, le zone cuscinetto neanche le avevano viste, perché dalla prospettiva data dalla canoa, la civiltà, e tutto ciò che ne deriva, rimaneva ben lontana dalle rive del Grande fiume.
Comunque, tanto è bastato, che il giorno successivo sono salito in auto e sono andato a Treviso per tornare a casa con quattro kayak e tre canoe.
E stato lì con loro infatti che ho capito che il Polesine deve essere visto da un’altra angolazione, non soltanto da sopra la sella di una bicicletta, come fino a quel momento avevo fatto.
E ciò che successivamente ho scoperto, stando sopra a queste  piccole imbarcazioni, e vedendo, vivendo e respirando questo luogo da un altra dimensione, ha cambiato definitivamente il mio approccio con questa stupefacente meravigliosa ed immensa creatura chiamata Parco del delta del Po.
LA MIA FLOTTA

Qualche giorno fa, mi trovavo nella mia Locanda, al Nibbio, sono stato invitato invitato ad entrare in una riserva privata per assistere alla liberazione di una quindicina di uccelli, reduci da traumi o incidenti, soccorsi ed assistiti dall’Associazione Sagittaria, un gruppo di volontari che si occupa di censire ed aiutare le numerose specie di uccelli che sorvolano i cieli del Polesine.

Così ho conosciuto Enrico Vicentini, un biologo di Adria, autentico appassionato della natura ed in particolar modo del delicato ecosistema che sostiene il Parco del Delta del PO.

Liberati i volatili, Enrico mi ha fatto una proposta: “Ora Leo ti porto in un luogo magico e ti faccio scoprire un angolo del Polesine che pochi conoscono”.

Chi mi conosce sa che sono curioso di natura e certo non avrei potuto lasciarmi sfuggire un’occasione così ghiotta. Ci siamo quindi diretti a circa una decina di chilometri dal Nibbio, sulle Dune Fossili di Porto Viro.

Le Dune Fossili sono un parco dentro al parco, dove si trova ben conservata una linea litoranea risalente a più di tremila anni fa, costituita da tre linee di dune di sabbia e ricoperta da una rigogliosa vegetazione di specie arboree quali il leccio, il pino marittimo, l’olmo ecc. ed erbacee quali  licheni centenari e fiori autoctoni.

Ok, per farvi capire quale biodiversità si fosse materializzata davanti ai miei occhi, provate per un attimo ad immaginare una giornata di metà Inverno illuminata da un sole brillante e da un cielo limpido ed azzurrissimo; immaginate poi di trovarvi all’interno di un bosco, un leggero vento che agita dolcemente i rami degli alberi, ed ascoltare nel silenzio il concerto dei suoni della natura: il tic tic tic dei picchi, i versi emessi dai rapaci e dalle civette, il gracidio dei piccoli anfibi che abitano gli stagnetti del parco. Poi scoiattoli, lepri e volpi che girovagano liberamente, tracce di animaletti ovunque…

Bene, tutto ciò non è immaginazione: esiste per davvero e si trova ad un’ora di strada dalla civiltà, a 40 km da Venezia e 75 km da Padova.

cane da tartufi

“Si, è veramente bello, ma la sorpresa si trova sotto terra” disse Enrico. D’un tratto ho visto l suo cane agitarsi ed Enrico, come di riflesso, mettendosi in ginocchio, ha cominciato a grattare tra le radici dell’erba.

Come per magia, ha estratto dalla terra una pallina biancastra ed irregolare. Non volevo credere ai miei occhi: era un tartufo!

Ma cosa ci fanno i tartufi in Polesine, cos’è sta novità?

la scoperta del atrtufo“Si chiama Bianchetto o Marzuolo, un tubero che cresce durante il periodo Invernale, forse non pregiato quanto i suoi cugini piemontesi, ma molto profumato e saporito” mi ha rivelatoEnrico.

Da questo rapporto causa/effetto ne è fuoriuscita una deliziosa cenetta a base di riso del Polesine al tartufo e arrosto d’anatra insaporito con lamelle del prezioso tubero recuperato poco prima nel parco. Il tutto accompagnato da un morbido vino bianco Friulano del Collio. Semplicemente meraviglioso!

Sempre chi mi conosce bene sa che, per conquistarmi, mi si deve mettere con le gambe sotto al tavolo; quindi ovvio è stato che tale banchetto conviviale abbia suggellato definitivamente il sodalizio fra me e questa terra, e non solo: ci fu anche la presa di coscienza che lo scopo della mia missione in Polesine è dire al mondo intero che l’Italia non è solo Roma, Firenze, Venezia e Milano. E’ far sapere che dietro al cono d’ombra della la magnifica Venezia si nascondono mille preziosi gioielli come il Parco del Delta del Po, un immenso patrimonio Unesco sospeso in un delicato equilibrio fra acque, lagune e terra, ma fatto anche di gente, profumi e sapori unici nel suo genere, tutti da vivere e da scoprire.